Quando vediamo un uomo camminare sul filo, una parte di noi l’accompagna lassù.
Paul Auster, L’arte della fame, 1982
E’ passato più di un anno da quando gran parte delle persone ha preso coscienza di essere parte del mondo, di tutto il mondo. Da quando a preoccuparci non era solo quello che accadeva a pochi passi dalle nostre case, ma quello che accadeva a migliaia di chilometri da noi.
Da quando abbiamo capito che, se una persona in Cina poteva stare male, c’era il rischio che pure noi potevamo soffrire della stessa malattia.
Da quando sapere che un nostro gesto, un piccolo e grande atto di responsabilità, poteva avere un ruolo importante nei confronti di tutto il mondo.
La pandemia ha avuto, come tutte le malattie, un ruolo importante per riportarci alla coscienza, non solo la nostra ma anche quella collettiva.
A un anno di distanza dall’inizio della pandemia e dalle conseguenti misure di contenimento, nell’incontro coi nostri pazienti e nelle riflessioni condivise con amici e colleghi, ci siamo accorti che lo sfondo emotivo sembra essere mutato.
Solo un anno fa, nel primo grande lockdown, apparivamo smarriti e spaventanti, il timore del contagio e la paura di qualcosa che faticavamo a capire sembravano manifestarsi con insistenza. Ci siamo allora uniti, abbiamo cercato risorse laddove non pensavamo di poterne trovare e abbiamo provato a esorcizzare ciò che sentivamo, in alcuni casi ci siamo anche difesi da quelle emozioni, troppo scomode da tenere assieme. Ed è così che il silenzio e il tempo vuoto, ma fertile, è stato difensivamente riempito da nuovi strumenti, nuove attività, strutturato rigidamente da programmi serrati che imitavano la realtà (o per lo meno la nostra realtà).
E’ stato il tempo degli aperitivi su zoom, dei karaoke sui balconi, delle pizze fatte in casa e dei corsi di formazione ondemand.
La paura via via è andata scemando, le difese sono cadute e hanno lasciato spazio in un primo momento alla rabbia, per poi arrivare a un particolare senso di sospensione della fase attuale. Ci sentiamo sospesi. Ad alta quota l’aria è rarefatta e il debito di ossigeno diventa più insistente.
Oggi, come il funambulo, ci muoviamo cercando di rimanere sul filo, vivi, trovando un equilibrio; lo facciamo per noi e per tutti, tifiamo la vita con una forza che non credevamo di avere.
È che, a volte, il filo viene spostato da venti oscuri. E’ difficile trovare l’equilibrio se non sai da dove provengono e con quale forza si accaniranno su di te. Cosi la fatica è sempre più importante, le energie iniziano a disperdersi e il pensiero che potresti non arrivare alla fine della corda potrebbe fare talmente paura da bloccarti e si sa… Non si può stare fermi sopra una filo.!
Per rimanere vivi abbiamo messo da parte una grande fetta della nostra vita relazionale, abbiamo messo da parte una grande porzione di piacere e la cosa più pericolosa è che, per la paura di perderci, ci siamo cosi allontanati da non ricordarci più chi eravamo. Stiamo vivendo il lutto delle possibilità perdute di esistere.
“Mi sento solo. Ho l’impressione di essere fermo, di non muovermi. E’ come se tutto fosse appeso. Vorrei fare qualcosa, una cosa qualsiasi ma non so che cosa. Non riesco a fare programmi, non riesco a immaginare il futuro”. Queste sono alcune delle frasi che abbiamo più spesso sentito ripetere negli ultimi giorni e che, in alcuni momenti, ce le siamo dette noi stessi.
C’è qualcosa in questo sentire comune, diffuso, che ci lascia perplessi. E’ il senso di impotenza e passività, dove sembra non rimanere nient’altro da fare, se non lasciarsi attraversare.
Ma che cosa c’è dietro questi pensieri? Che cosa cela questa emozione nebbiosa (o questa nebbia emotiva)?
È possibile che la nebbia copra ciò che non vogliamo vedere, renda sfumati i contorni di ciò che non vogliamo sentire: la tristezza e la perdita.
Se ci fermiamo un momento e proviamo a squarciare il senso di sospensione e impotenza, emergerà facilmente ciò che ci manca e con esso ciò che è stato perduto.
Nell’anno che è passato abbiamo imparato a rinunciare ai momenti di convivialità, alla vicinanza fisica, agli eventi di massa. Ognuno di noi, giustamente, ha ceduto la socialità alla sicurezza.
Torneremo ad abbracciarci. Sicuramente. Torneranno gli aperitivi con gli amici, le visioni al cinema e le piece teatrali. Ma noi e il tempo non saremo più gli stessi.
L’aperitivo dell’aprile 2020 è perduto per sempre. Ci sarà certamente un nuovo aperitivo, ma sarà un altro e non più quello.
Ognuno di noi ha perso quelle specifiche cose delle quali avrebbe potuto fare esperienza in quel determinato periodo di tempo, in quello specifico anno e nessuna di queste potrà esserci restituito. Abbiamo subìto delle perdite ed è congruo sentirsi tristi.
Sapere questo, può aiutarci a capire che il dolore e la rabbia che proviamo è un passaggio necessario per rinascere, per ritrovare le energie necessarie utili non solo alla sopravvivenza ma alla possibilità di essere di nuovo o per la prima volta, felici di vivere.
Non ci resta che fare spazio a questa tristezza, alla nostalgia di vecchie istantanee, e celebrare il lutto delle nostre perdite.
Solo accogliendo e attraversando la tristezza, riconoscendo il lutto, sarà possibile riscoprirci nuovamente attivi e proiettati verso un futuro diverso.
Il vento più pericoloso per il funambulo è quello che crea lui con il suo respiro. Se sa di che emozione è fatto può maneggiarlo a suo favore.
Proviamo ad esistere con le possibilità altre che abbiamo, piangendo quelle perdute, le lacrime faranno da fertilizzante a nuove avventure.
Dott.ssa Elisa Pioppi – Psicologa e psicoterapeuta della gestalt
Dott. Antonino Cascione – Psicologo e analista transazionale
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